Danno tanatologico: la tanto attesa risposta delle Sezioni Unite

Limitato l’ambito di applicazione oggettivo su cui la Suprema Corte si pronuncia, dato che, come tiene a precisare, il thema decidendum, posto dall’ordinanza di remissione, atteneva alla questione della risarcibilità o meno iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito (ossia quel pregiudizio variamente definito come “danno tanatologico puro” o “danno da perdita della vita” o “da morte immediata” o “istantanea”).

Non sono state, dunque, poste al suo esame anche le questioni relative al risarcimento dei danni derivanti dalla morte conseguente alle lesioni dopo un “apprezzabile lasso di tempo”.

Ciò in quanto tali casi sono pacifici, posto che – si sottolinea – a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite del 22 dicembre 1925, la giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato la risarcibilità del diritto iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, in quanto tale diritto si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi.

Con riferimento a tali fattispecie si registra, in realtà, negli orientamenti giurisprudenziali, una distinzione che attiene, da un lato, alla qualificazione del danno risarcibile in termini di “danno biologico terminale”, secondo un orientamento (liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro, che le apposite tabelle ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno); dall’altro lato, secondo una diversa impostazione, classificato come danno “catastrofale”, talvolta, poi, qualificato come danno morale soggettivo.

Tali incertezze, peraltro, non sembrerebbero rilevare sul piano concreto della liquidazione dei danni, dato che il risultato tenderebbe a coincidere sia che si utilizzino le tabelle di liquidazione del danno biologico psichico (dovendosi nel qual caso procedere alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto), sia che si applichi il criterio equitativo puro, utilizzato per la liquidazione del danno morale.

Le S.U. hanno, quindi, inteso disattendere il consapevole revirement effettuato dalla sentenza n. 1361 del 2014, definita storica per aver riconosciuto per la prima volta, esplicitamente, il diritto al risarcimento del “danno alla vita”, e per essersi posta in aperto contrasto con la precedente giurisprudenza di legittimità, che da sempre ne aveva categoricamente negato la risarcibilità. Ciò, peraltro, in linea con l’auspicio – proveniente da orientamenti giurisprudenziali e dottrinari italiani ed europei – che fosse riconosciuto quale momento costitutivo del credito risarcitorio il momento della lesione, indipendentemente dall’intervallo di tempo con l’evento morte causalmente collegato alla lesione medesima.

Dunque, in caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, “l’irrisarcibilità deriva dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito” (il preannunciato argomento “epicureo”) – sostiene la sentenza in commento, che continua: – “il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico ‘vita’ che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente. La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene ‘salute’ “.

Netta, quindi, la distinzione fra il bene della salute ed il bene della vita, tutelati, rispettivamente, dagli artt. 32 e 2 Cost., e quindi ricadenti nella tutela risarcitoria atipica apprestata dall’art. 2043 e.e.

Né ha convinto l’obiezione che la negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, sia stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita sia priva di conseguenze sul piano civilistico.

Difatti se si ammette che la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse della intera collettività, si ritiene che tale rilievo giustifichi e anzi imponga la previsione della sanzione penale, la cui funzione peculiare è quella di soddisfare esigenze punitive e general – preventive.

La decisione de qua cassa pure l’ulteriore rilievo, frequente in dottrina, che rileva l’insanabile contraddizione di un sistema che concede onerosi risarcimenti in caso di lesioni gravissime (integrante un danno meno grave derivante dalla perdita della salute) eppure li nega del tutto laddove vanga in rilievo l’illecita privazione della vita (per il danno ben più grave derivante dalla perdita della vita). Così contraddicendo, altresì, sia il principio della necessaria integralità del risarcimento, che la funzione deterrente che dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile e che dovrebbe portare a introdurre anche nel nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi.

Le S.U., poi, non riconoscono pregio all’argomento del ”è più conveniente uccidere che ferire”: pur riconoscendovi indubbia efficacia retorica, ritengono trattarsi in realtà di un rilievo solo suggestivo, ma non corrispondente al vero, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali.

Inoltre si fa leva sulla funzione reintegratoria e riparatoria responsabilità civile, nonchè sull’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza e sull’asserita inammissibilità del risarcimento dei danni “punitivi” nel nostro ordinamento, contrariamente a quanto invece sostenuto da numerosi ed autorevoli autori.

Le Sezioni Unite concludono dichiarando fondato il rigetto della ulteriore domanda di risarcimento avente ad oggetto il danno esistenziale, patito dai familiari per la dipartita del loro caro.

Dichiarano di ritenere valida la liquidazione del danno operata nel merito, che, al momento della relativa quantificazione, avrebbe considerato unitariamente tanto i pregiudizi di tipo relazionale quanto la sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale.

A sostegno di quest’impostazione, richiamano i propri precedenti del 2008 (ossia le sentenze di San Martino nn. 26972, 26973, 26974 e 26975), alla cui stregua – si legge – non sarebbero “configurabili, all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale, cioè del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, autonome sottocategorie di danno, perché se in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all’art. 2059 c.c.”.

Arroccandosi su tali risalenti posizioni, la decisione in commento dimostra di ignorare che in realtà, a far data dalle sentenze gemelle del lontano 2008, tanta strada è stata percorsa dalla giurisprudenza sia di legittimità che di merito, nella direzione della autonomia del danno esistenziale rispetto alle altre voci di danno non patrimoniale ed al suo definitivo rilancio, che hanno chiarito come il principio di unitarietà ed omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale vada interpretato nel senso che il giudice è tenuto alla liquidazione unitaria delle diverse voci di danno, laddove il pregiudizio incida su beni ed interessi omogenei; ma che vi sia un vero e proprio obbligo di liquidazione separata dei danni ove invece siano conseguenza della lesione di beni ontologicamente differenti (è il caso di danno alla salute psichica e danno alla serenità familiare, patiti in conseguenza della perdita del congiunto).

Si può, pertanto, immaginare come la decisione de qua abbia deluso chi, confidando in una lunga attesa (durata oltre un anno), si aspettava forse che le Sezioni Unite avrebbero colto l’assist offerto dalla coraggiosa sentenza della Cass. n. 1361 del 2014, definita storica per aver riconosciuto per la prima volta, esplicitamente, il diritto al risarcimento del “danno alla vita” in quanto tale, ponendosi, in tal modo, in consapevole contrasto con la precedente granitica giurisprudenza di legittimità, che da sempre ne aveva categoricamente negato la risarcibilità.

Non solo: con questa sentenza le SS.UU. peccano anche sotto il profilo della corrispondenza ai più recenti assestamenti ermeneutici in tema di danno non patrimoniale ed esistenziale, sancendo, almeno apparentemente, un (presumibile non definitivo) ritorno ad una ormai superata interpretazione negatoria, di cui a beneficiare sarebbero soltanto le casse delle compagnie assicurative, a fronte della frustrazione delle legittime e fondate pretese risarcitorie delle vittime.